
Tutti noi sappiamo che la storia è fatta anche di esecuzioni capitali comminate da sovrani e governi. Probabilmente però’, non ci siamo mai soffermati sull’esecutore della condanna. Si conosce sempre il nome del re o del giudice che emette la sentenza di more, giusta o sbagliata che sia. Si studia sempre la vita della vittima. Invece, non si parla quasi mai di chi quella sentenza deve eseguirla, cioè il boia.
Ebbene, tra i boia più famosi della storia vi si trova proprio quello che serviva il regno Sabaudo: Pietro Pantoni, figlio d’arte se così possiamo dire.
Il periodo emiliano
Il padre di Pietro, Antonio Pantoni, era originario dell’Emilia-Romagna. Di umili origini, abbandonato dai genitori si trasferì a Roma in cerca di fortuna. Venne ospitato da Giovan Battista Bigatti, detto Mastro Titta. Egli lo prese in casa come orfano e gli fece da secondo padre.

Antonio, frequentando casa Bigatti, si innamorò e ne sposò la figlia. Per capire appieno la storia bisogna sapere che Mastro Titta non era altro che il boia del pontefice. Egli, nella sua vita, giustiziò oltre 500 persone. In queste condizioni è facile intuire che Antonio Pantoni aiutando il suocero, divenne Esecutore di Giustizia.
Non felice di quell’attività, Antonio rientra Reggio Emilia alla ricerca di altre occupazioni. Tuttavia, non trovando altri impieghi continuò nella sua attività di carnefice. In questo contesto nasce Pietro Pantoni.
Pietro ha un fratello, Giuseppe Pantoni, che aiuta il padre nel mestiere di Esecutore di Giustizia. Tuttavia, egli tenta di fuggire da quel futuro, tanto da trasferirsi in Francia.
Purtroppo, il nome di famiglia non lo aiuta. Essere figlio e fratello di carnefici non è un buon biglietto da visita nella ricerca di una vita migliore. Sconfitto rientra a Reggio Emilia. Nel 1831 intraprende la carriera di Esecutore di Giustizia per il ducato di Modena.
Il boia Pantoni: prima esecuzione
Parma, 26 maggio 1831. Otto del mattino. La condanna era per due rivoltosi rei del tentativo di spodestare il Duca Francesco IV di Modena. Pietro Pantoni con il fratello Giuseppe si appresta ad eseguire la sentenza di morte. Il “paziente” di Giuseppe era Vincenzo Borelli, Pietro invece si occupa di Ciro Menotti.
Pietro diventerà Esecutore di Giustizia per lo stato Sabaudo. Trasferitosi a Torino la tradizione vuole che prenda alloggio in Via Bonelli 2 (all’epoca Via Fornelletti), appartamento dedicato dal Podestà per chi fa quel mestiere.
In realtà egli abiterià in un appartamento all’ultimo piano di via San Domenico, sul retro di Palazzo Giustizia. L’appartamento per comoditaà è infatti vicino alle carceri senatorie di via Corte d’Appello. Quantomeno qui e’ dove gli fece visita Borgonovo per un’intervista di cui parleremo più avanti.
Probabilmente in Via Bonelli ci vive il nipote di Pietro, Felice Pantoni. Anche fu boia. Venne chiamato a Torino per prestare servizio alle dipendenze dello zio. Pietro che fu costretto ad allontanarlo da Torino per via delle voci di infedeltà della moglie, che aggravarono le gia’ difficili relazioni sociali.
Il periodo torinese
La paga è buona, anzi ottima. Egli guadagna all’incirca quanto un professore universitario. Tuttavia, Pietro conduce una vita triste e solitaria. Sposato con cinque figli, viene spesso schernito, deriso e discriminato.
Per esempio, per ricevere i suoi soldi, i commercianti gli porgono una ciotola con l’aceto per disinfettare il denaro sporco. Per non parlare dei fornai, che gli servono solamente il pane del boia.
Anche in chiesa viene completamente isolato. Nella chiesa di Sant’Agostino ha un banco separato dagli altri per seguire messa. Il campanile poi e’ adibito alla sepoltura dei boia. Isolati nella loro categoria e saparati dagli altri anche dopo la morte.
La moglie esce di rado per la vergogna di farsi vedere in giro. Si dice che torinesi la deridessero dicendo che la sua è la casa più pulita del regno. Tuttavia, a quell’epoca non era comune neppure per le altre donne uscire spesso di casa.

In vita sua Pietro avrà solamente due amici. Entrambi legati in qualche modo alla sua attività. Il primo è’ Giuseppe Cafasso, sacerdote che conforta e accompagna i condannati all’esecuzione, fu suo confidente e confessore. L’altro invece fu un certo Caranca, becchino di Rivarolo.
Pantoni andò in “pensione” dopo 33 anni di attività. Nel 1864 l’impiccagione venne rimpiazzata dalla fucilazione.
Il boia di Torino: curiosità
Appare quanto meno bizzarro il fatto che nel 1853, con una lettera ufficiale, Pietro Pantoni chiese la sostituzione della forca con la ghigliottina. Il motivo era alleviare le sofferenze dei “pazienti” e le fatiche dell’Esecutore.
La morte per impiccagione era difatti lunga e complicata. Innanzi tutto, gli aiutanti del boia dovevano far salire il condannato su una scala a pioli appoggiata alla traversa della forca. Poi infilargli la testa nel cappio. Successivamente veniva rimossa la scala lasciando il condannato a penzoloni. A questo punto il capo Esecutore saltava sulle spalle dell’uomo mentre un suo aiutante, lo tirava verso il basso dalle gambe (da qui il termine tirapiedi).
Senza contare che l’esecuzione doveva essere rapida. Inoltre, nel caso qualcosa fosse andato male, il gruppo di carnefici rischiava anche il linciaggio da parte del popolo
Nota. Sulle bancarelle del centro o in qualche libreria si può trovare il libro Le memorie del boia di Torino. Ebbene, esso e’ un falso storico. Il libro è infatti non e’ scritto da Pantoni, ma e’ un’opera di Enrico Gianeri che riprende le trascrizioni di Giacomo Borgonovo. Borgonovo e’ un mazziniano genovese contrario alla pena di morte che intervistò Pietro Pantoni nel 1865.