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Vittorio Emanuele II nasce a Torino nel marzo 1820 da Carlo Alberto e Maria Teresa Asburgo. Viene battezzato con i nomi di Vittorio Emanuele Maria Alberto Ferdinando Tommaso.
Poco dopo la nascita tutta la famiglia si sposta in Toscana a causa dei moti rivoluzionari del 1821. Qui a seguito di un incendio scoppiato il 16 settembre 1822 a Poggio Imperiale dove i Savoia risiedevano, vi è un evento avvolto dal mistero.

E’ davvero Vittorio Emanuele II?
Secondo alcuni l’erede al trono sarebbe morto nell’incendio e fu sostituito da un bambino di due anni. Si dice egli fosse figlio del macellaio Maciacca e di sua moglie Regina. In cambio del bambino il macellaio visse nell’agio per tutta la vita, mentre invece la moglie morì sola e povera.
Alcuni storici vedono in questa sostituzione la motivazione della differente struttura fisica tra il padre, alto e slanciato, e Vittorio Emanuele II piccolo, tarchiato con un chiaro fisico di un popolano robusto.
Sembra che sia stato Massimo D’Azeglio ad aver confessato in punto di morte la sostituzione del bambino. Tuttavia, questa ipotesi non ha mai trovato alcun riscontro documentale solido. L’unico modo per risolvere il mistero sarebbe un esame genetico dei due re.
La giovinezza
Rientrati in Piemonte nel 1824, Carlo Alberto e la moglie si dedicarono personalmente all’educazione dei figli, incaricando vari precettori di istruirli in lettere, religione, geografia e storia. A partire dal 1830 saranno poi affiancati altri precettori ed insegnanti voluti da re Carlo Felice.

Divenuto maggiorenne, Vittorio Emanuele II affianca il padre nella gestione del governo ed in parte nell’attività politica. Occorre dire però che il giovane principe preferisce di gran lunga attività più dinamiche come scalate alpine, la caccia, le cavalcate ed ovviamente le avventure amorose. Avventure amorose che non interruppe mai, neppure dopo il matrimonio del 1842 con Maria Adelaide, pur avendo nei suoi confronti grande rispetto ed assecondando tutti i suoi desideri.
Il primo intervento in campo politico-militare avvenne nel 1848, dove scese in campo nella guerra contro l’Austria contraddistinguendosi in alcune battaglie, tra cui quella di Pastrengo. Prese parte anche alle disastrose sconfitte di Mortara e di Novara, a seguito delle quali Carlo Alberto abdicò in suo favore.
Firma dell’armistizio
Nei trattati di pace che ne seguirono Vittorio Emanuele II riuscì probabilmente ad ottenere delle condizioni migliori di quelle che avrebbe potuto ottenere il padre. E’ costretto comunque ad assicurare un più stretto controllo verso i rivoluzionari e a concedere un presidio austriaco di 20.000 uomini nella fortezza di Alessandria.
L’armistizio portò ad un aspro conflitto tra il re ed il parlamento. Vittorio Emanuele riteneva che fosse nel suo diritto reale dichiarare guerra e trattare la pace, ma il parlamento sosteneva che la discussione delle clausole all’interno del trattato (che intaccavano il territorio e le finanze con l’occupazione nemica di una fortezza ed il mantenimento delle sue truppe) fosse di sua competenza.

Sebbene il re fosse determinato a proseguire i trattati per la firma dell’armistizio non riuscì a domare le opposizioni dei democratici. Essi sostenevano che l’occupazione austriaca della fortezza di Alessandria e la pretesa dell’Austria ricevere 200 milioni da parte del Piemonte come indennità di guerra intaccava l’onore dello stato.
Il perdurare della discussione senza la ratifica dell’armistizio innervosì l’Austria che occupò con la forza Alessandria. Il re interruppe allora tutte le trattative, chiese l’appoggio di Francia ed Inghilterra e il 7 maggio 1849 chiamò Massimo d’Azeglio come presidente del consiglio ad istituire un nuovo governo.
Alla fine, i piemontesi ebbero la meglio: l’Austria sgomberò Alessandria e la richiesta di indennità di guerra scese a 75 milioni. Tuttavia, la camera del nuovo governo presieduto da d’Azeglio continuava ad essere a maggioranza democratica, ed essi erano sempre più saldi nel non voler ratificare il trattato. Avendo ottenuto condizioni migliori delle precedenti, non vi era ormai più spazio di trattativa. La mancata ratifica rischiava quindi di ripercuotersi pesantemente sul Piemonte.
Proclama di Moncalieri
Il 20 novembre Vittorio Emanuele II sciolse nuovamente le camere e con il proclama di Moncalieri chiese l’elezione di un parlamento incline alla firma del trattato per porre fine una volta per tutte alla prima guerra d’indipendenza.

Fu ascoltato. Alle elezioni del 9 dicembre è eletto un parlamento a maggioranza moderata che nel gennaio 1850 ratifica il trattato.
La capacità diplomatica di Vittorio Emanuele II nell’ottenere onorevoli condizioni di pace, mantenendo vivi gli ideali di libertà e nazionalità pur limitando i democratici senza fare uso della forza, portò il d’Azeglio a definirlo Re Galantuomo.
Se da una parte Vittorio Emanuele II alimentò i pensieri di libertà di tutti i patrioti italiani, che guardavano a lui come guida per l’unità d’Italia, dall’altra parte sui temi religiosi egli si mantenne fedele alla vecchia conservatrice linea Savoia. Gli scontri con la Santa Sede diventano particolarmente duri nel 1850, quando sono proposte le leggi Siccardi che eliminano il tribunale ecclesiastico e sopprimono anche alcuni ordini religioni. A questo si aggiunsero le preoccupazioni dovute al colpo di stato francese di Luigi Napoleone che riprendeva i pensieri liberali e si apprestava a distruggere i trattati della Restaurazione.
Vittorio Emanuele II e gli scontri con Cavour
Fu in questo contesto che iniziò ad emergere il genio politico di Cavour. Egli propose una solida alleanza parlamentare al fine di formare un forte partito di centro, composto tuttavia da uomini non nelle grazie reali, come l’anticlericale Urbano Rattazzi.

Tuttavia, poco tempo dopo, grazie all’abilità politica di Cavour, Rattazzi entrerà a far parte del governo e da anticlericale qual era propose subito una legge per la soppressione di diversi conventi, con confisca dei beni da parte dello Stato. Questa legge diventa motivo di scontro tra Cavour e Vittorio Emanuele II, coinvolgendolo anche in forma privata.
Cavour scese ad un compromesso: per poter realizzare la sua idea di governo era disposto ad accettare un uomo di fiducia del re come Luigi Cibrario, e a non opporsi ad alcune leggi che non approvava ma che erano invece sostenute dal sovrano.
Leggi Rattazzi
Nell’inizio del 1855 ebbe una serie di lutti che lo colpirono da vicino: prima la morte della regina madre, una settimana dopo la regina Maria Adelaide ed infine il fratello Ferdinando duca di Genova.

Il vescovo di Casale approfittò di questo suo stato d’animo per proporre un lascito di un milione di lire per migliorare la vita dei parroci in cambio dell’abbandono della legge Rattazzi. Vittorio Emanuele accettò mandando su tutte le furie Cavour che si dimise il 25 maggio. Tuttavia, Massimo d’Azeglio, fedele servitore del re, e il generale Lamarmora a nome dell’esercito (che, come il re, auspicavano un intervento piemontese nella guerra di Crimea appena scoppiata) esortarono il re a ripensarci.
Vittorio Emanuele II è quindi costretto a richiamare Cavour a capo del governo (3 maggio) il quale gli impone la firma della Rattazzi (28 maggio 1855).
Simbolo di unità nazionale
La guerra di Crimea non portò particolare giovamento al regno di Sardegna; tuttavia, permise a Vittorio Emanuele II di farsi conoscere in Europa visitando Parigi e Londra.

Inoltre, la partecipazione delle truppe piemontesi rilanciò nuovamente il re come simbolo di unificazione nazionale. Uno dei principali sostenitori della monarchia in chiave di unificazione nazionale fu Giuseppe Garibaldi, tornato dall’America nel 1854.
Nel 1857 riprende l’iniziativa mazziniana con la rivolta di Genova, mentre le nuove elezioni segnano la sconfitta dei liberali.
Nonostante l’antipatia reciproca, il re vede in Cavour l’uomo giusto per le sue aspirazioni politiche e continua a sostenerlo mantenendolo come presidente del consiglio. Tuttavia, Cavour deve però rinunciare a Rattazzi, uno dei suoi collaboratori più fidati.
Accordi di Plombieres
Per una curiosa coincidenza la sera dello stesso giorno in cui Rattazzi lasciava il governo Felice Orsini tenta di uccidere Napoleone III: è il 14 gennaio 1858. L’attentato, pur lasciando sul campo 12 morti e oltre 150 feriti, fallisce e la reazione francese non si fa attendere. La Francia sostiene che il Regno di Sardegna lascia troppa libertà al pensiero repubblicano e pretende controlli più severi. Cavour prima è costretto a chiudere L’Italia del Popolo, il più importante giornale repubblicano, poi viene invitato a Plombieres dove si discute l’alleanza franco-sarda contro l’Austria.
Spartizione dell’Italia
Secondo la visione francese l’Italia avrebbe dovuto essere suddivisa in tre regni. Il Nord sotto il controllo di Vittorio Emanuele, al Centro una confederazione di stati guidata dal papa mentre al Sud il Regno delle due Sicilie. Vittorio Emanuele avrebbe dovuto cedere Nizza e la Savoia alla Francia. L’accordo prevedeva anche un matrimonio tra il cugino di Napoleone III e Maria Clotilde, figlia del re di Sardegna.

Gli accordi tuttavia prevedevano un’alleanza difensiva, per tanto il piano di Napoleone III e Cavour era quello di provocare l’Austria affinché fossero gli austriaci a dichiarare guerra. Il Regno di Sardegna inizia quindi ad organizzarsi militarmente arruolando volontari e riarmandosi. La Francia fa trapelare l’intesa franco-sarda ed interrompe quasi completamente le relazioni diplomatiche con l’Austria. Dal canto suo l’Austria inizia a mobilitare l’esercito soprattutto nel Lombardo-Veneto.
Provocazioni Piemontesi
La tensione sale in tutta Europa, pur non verificandosi alcun episodio utile a scatenare la guerra, nessuna delle azioni austriache può essere interpretata come un attacco al Regno di Sardegna condizione necessaria per far sì che i trattati di Plombieres entrino in funzione.
L’esplosiva situazione inizia a preoccupare anche Russia e Gran Bretagna, tanto che nel marzo 1859 i russi propongono una conferenza tra Francia, Russia, Austria, Gran Bretagna e Prussia per dirimere la questione ed iniziare il disarmo. Non invitato al tavolo il Piemonte rifiuta di procedere al disarmo, mentre l’Austria si dice disponibile a partecipare alla discussione solamente se il Piemonte ne rimane escluso e procede al disarmo.
Lo stallo è risolto grazie alla Gran Bretagna che propose una commissione di soli sei membri, uno per nazione incluso il Regno di Sardegna. L’invito a partecipare fu un brutto colpo per Cavour, le sue provocazioni non avevano sortito l’effetto che lui e Napoleone avevano sperato. Il piano preparato a Plombieres stava sfumando.

Don Abbondio è Cavour, Renzo è il Piemonte, Lucia è l’Italia e Don Rodrigo è Napoleone III.
Tuttavia, l’Austria rimane sulle sue posizioni: avrebbe partecipato solamente con l’esclusione del Piemonte. Il 23 aprile 1859 l’Austria fece consegnare a Cavour un ultimatum che chiedeva il disarmo entro tre giorni. Era l’occasione che Cavour stava aspettando. Cavour respinse l’ultimatum austriaco ed accettò di partecipare alla commissione proposta dalla Gran Bretagna, partecipazione accettata da tutte le potenze esclusa l’Austria. Questa mossa fece ricadere sugli austriaci la responsabilità delle conseguenze: l’Austria fu praticamente costretta a dare seguito all’ultimatum.
La guerra riacutizzò i contrasti mai sopiti tra re Vittorio Emanuele II, sul campo di battaglia, e Cavour al governo. Uno dei più grossi scontri fu relativo a Giuseppe Garibaldi. Cavour e lo stato maggiore diffidavano del nizzardo, al contrario Vittorio Emanuele II lo teneva in grande considerazione tanto permettergli una lunga campagna militare sui laghi lombardi.
Armistizio di Villafranca
L’esito della guerra sembrava indirizzarsi verso la vittoria dei franco-piemontesi, tuttavia dopo la vittoria di Napoleone III a Solferino e San Martino le potenze europee temevano l’ampliarsi dell’egemonia francese. Intimarono pertanto all’imperatore di non entrare nel Veneto, in caso contrario avrebbero sostenuto massicciamente l’Austria.

Napoleone III fi quindi costretto a fermarsi ed a firmare l’armistizio di Villafranca (11 luglio 1859). Anche in questo caso vi fu un violento scontro tra Vittorio Emanuele II e Cavour. Il re era convinto che fosse necessario sottostare all’armistizio e lo ratificò, Cavour avrebbe invece voluto continuare la guerra, pertanto, si dimise lasciando il governo a La Marmora e Rattazzi.
L’armistizio di Villafranca evidenziò però il problema dell’Italia centrale. Toscana, Modena, Parma, Piacenza, Bologna e le Legazioni pontificie avevano rovesciato i governi e manifestato il desiderio di unirsi al Regno di Sardegna. L’Inghilterra appoggiava le annessioni, mentre la Francia in cambio dell’appoggio voleva Nizza e la Savoia. Il papa minacciava la scomunica per chi avesse governato i suoi territori, Garibaldi avrebbe voluto continuare ed annettere anche il resto d’Italia.
La cessione di Nizza e Savoia
La situazione politica era quanto mai complicata e Vittorio Emanuele II si convinse che l’unico in grado di destreggiarsi era il tanto odiato Cavour. Il 21 gennaio 1860 è costretto a richiamarlo al Governo.

La questione più difficile da dirimere fu quella francese. In cambio dell’approvazione per l’annessione la Francia chiedeva Nizza, città natale di Garibaldi, e la Savoia, regione di origine della dinastia reale. Convincere il re a cedere questi territori non fu affatto facile per Cavour, ma alla vi riuscì. Tuttavia, dovette permettere a Garibaldi la Spedizione dei Mille, fortemente caldeggiata anche da re Vittorio Emanuele II.
Vittorio Emanuele II e Garibaldi
Giunto in Sicilia, Garibaldi proclamò la dittatura in nome di Vittorio Emanuele II. Cavour ed il re avrebbero voluto l’annessione immediata, ma Garibaldi aveva in animo di consegnare al re tutto il Sud Italia conquistando anche Roma.
Per impedire la marcia su Roma le potenze europee fecero pressione su Cavour affinché convincesse il re ad esercitare la sua influenza su Garibaldi per farlo desistere.

Vittorio Emanuele scrisse una lettera ufficiale a Garibaldi osteggiando il suo piano di risalita della penisola, ma in un’altra missiva privata gli ordinava di disobbedirgli. Garibaldi disobbedì e questo permise a Cavour di ottenere l’approvazione di Napoleone III per la discesa verso Roma.
Nel settembre 1860 Vittorio Emanuele II invade l’Umbria, poi le Marche marciando verso l’Abruzzo. Nel mentre Garibaldi chiede al re di destituire Cavour e di concedergli il governo del Mezzogiorno.
Il rifiuto di Vittorio Emanuele II porta Garibaldi a proclamare l’annessione di Napoli e Sicilia al Regno di Sardegna con i plebisciti del 21 e 22 ottobre. Il 26 ottobre 1860 lo stesso Garibaldi rende omaggio a Vittorio Emanuele II incontrandolo a Teano.
Vittorio Emanuele II re d’Italia
Il 14 marzo 1861, con una legge del parlamento firmata nel cortile di Palazzo Carignano a Torino il Regno di Sardegna viene trasformato in Regno d’Italia e Roma è proclamata capitale. Il re amante della continuità dinastica volle mantenere la numerazione storica rimanendo Vittorio Emanuele II, re d’Italia.
Completata l’opera, poche settimane dopo, il 6 giugno, Camillo Benso conte di Cavour morì nel suo palazzo in centro a Torino.

Finita l’epoca di Cavour e dopo un breve incarico al barone Bettino Ricasoli, nel 1862 il governo viene affidato a Urbano Rattazzi. Rattazzi, dopo la rottura con Cavour si avvicinò sempre più a Vittorio Emanuele, conquistandone la sua fiducia. Abile nel muoversi a corte, bravo amministratore ed ottimo consulente legale e di governo, non aveva però il genio politico e la forza di carattere di Cavour. Egli ebbe tuttavia il merito di far evolvere il senso costituzionale di Vittorio Emanuele II.
L’Italia, sebbene unita, non era ancora però completa: Roma continuava ad essere sotto il controllo del papa e Venezia era ancora di dominio austriaco. Nel luglio del 1862 Garibaldi decise quindi di riprende il suo vecchio progetto della conquista di Roma. Riunisce le sue truppe in Sicilia ed informa Vittorio Emanuele II della decisione di marciare verso la capitale. Il re però questa volta non appoggia l’impresa e gli sconsiglia di partire. Garibaldi però insiste e Vittorio Emanuele II è costretto a farlo arrestare quando nell’agosto si trova in Aspromonte.
La vicenda costringe alle dimissioni Urbano Rattazzi. Il governo è affidato a Minghetti, ministro che il re non vedeva di buon occhio, ma che gli lasciò mano libera in politica estera. Vittorio Emanuele prese quindi a manovrare per l’annessione di Venezia. Per una volta le ambizioni reali incontravano i desideri di Mazzini: i due lavoravano per lo stesso scopo.
Firenze
Mentre Vittorio Emanuele II trattava segretamente con Mazzini per la conquista di Venezia, dall’altra parte Minghetti portava avanti trattative private ed altrettanto segrete con Napoleone III affinché egli ritirasse le truppe francesi da Roma.

Autore Giacomellli
Come primo passo Minghetti acconsentì di avvicinare la capitale del regno allo stato pontificio indicando come nuova collocazione Firenze.
Il re ne è informato solamente a cose fatte e non ci fu modo di evitare il trasferimento. La decisione mandò Vittorio Emanuele II su tutte le furie e portò all’insurrezione alla ribellione i torinesi che nelle giornate del 20 e 21 settembre 1864 manifestarono in piazza San Carlo.
La protesta è ferocemente repressa dalle forze armate comandate dal Minghetti che causò decine di morti e centinaia di feriti. Il 23 settembre Vittorio Emanuele II solleva il Minghetti dall’incarico affidando il governo a La Marmora.
Venezia e la terza guerra d’indipendenza
Con lo scoppio della guerra tra Austria e Prussia, Vittorio Emanuele II vede il momento giusto per la conquista di Venezia. Nel giugno 1866 il Regno d’Italia entra in guerra a fianco della Prussia dando il via alla Terza guerra d’indipendenza.

Nonostante la vittoria finale prussiana, l’avventura italiana fu sconfortante. La Marmora venne sconfitto Custoza e successivamente l’Italia perderà anche la battaglia navale di Lissa.
Decisamente più fortunate furono invece le incursioni dei garibaldini in Trentino e Venezia Giulia.
Tuttavia, l’intervento diplomatico francese pose fine alla guerra: l’Austria cede Venezia alla Francia che la gira all’Italia, che in cambio interrompe i combattimenti in Trentino con un dispaccio del re che chiede a Garibaldi di fermarsi.
Finalmente a Roma
La conquista di Roma arrivò finalmente nel 1870. Lo scoppio della guerra franco-prussiana con la sconfitta francese era l’occasione che Vittorio Emanuele II stava aspettando. La caduta di Napoleone III porta al ritiro del presidio francese nello stato pontificio, dando mano libero al re di impadronirsi della città. Il 20 settembre 1870 le truppe del neonato Regno d’Italia entrano a Roma attraverso la breccia di Porta Pia ponendo fine allo Stato Pontificio.
Ultimi anni di Vittorio Emanule II
Gli ultimi anni di Vittorio Emanuele II trascorrono nella speranza di poter annettere all’Italia i territori mancanti, ossia il Trentino e il Friuli. L’ultima occasione fu l’approvazione da parte del re di un tentativo fatto da Crispi nel 1877.

Vittorio Emanuele II muore il 28 gennaio 1878 ed è tumulato presso il Pantheon a Roma.
Vittorio Emanuele II, soprannominato Padre degli italiani per aver unificato l’Italia, ebbe una numerosa discendenza.
Sposatosi nel 1842 con la cugina Maria Adelaide d’Austria ebbe da lei otto figli, tra cui il suo successore Umberto I e Maria Pia che sposò re Luigi I di Portogallo.

Da Rosa Vercellana, moglie morganatica ebbe altri due figli. Molti furono anche i figli avuti da relazioni extraconiugali: due dalla relazione con l’attrice Laura Bon, due figlie con la baronessa Vittoria Duplesis, un figlio da una donna di Mondovì, altri due figli li ebbe con Virginia Rho mentre Rosalinda Incoronata De Dominicis e Angela Rosa De Filippo gli diedero rispettivamente un maschio e una femmina.
Ebbe un’altra ventina di figli illegittimi da varie relazioni avute soprattutto dopo la morte della moglie. Di essi non si conosce il nome, ma gli veniva solitamente dato il cognome Guerriero o Guerrieri.
Insomma, padre degli italiani di nome e di fatto!